Premessa – 5 maggio, Giornata Mondiale degli Ex
Cari Divorziati, separandi o aspiranti tali, sapevate che il 5 maggio era la Giornata Mondiale degli Ex?
Non l’abbiamo festeggiata con una torta. Né con una telefonata. Ma a pensarci bene… perché no?
Potrebbe essere l’equivalente della Giornata della Gratitudine.
Non per santificare chi ci ha fatto penare, ma per fermarsi un attimo a guardare indietro.
E magari capire qualcosa in più. Di loro. E soprattutto di noi.
1. L’innesco – La miccia che accende il cambiamento
Ogni rivoluzione ha bisogno di una scintilla. E nel nostro caso, quella scintilla ha un nome, un cognome e forse aveva anche il suo cognome sul tuo campanello di casa.
L’ex.
Quel detonatore umano che, spesso senza nemmeno rendersene conto, ha fatto saltare in aria la quotidianità che avevamo costruito mattone dopo mattone. Pensava forse di infliggerci solo un graffio — e invece ci ha demoliti come un palazzo di fine anni ’70 senza certificato antisismico.
Ma ecco il colpo di scena: in mezzo alle macerie abbiamo ritrovato i progetti originali di noi stessi.
Non stiamo scrivendo un romanzo rosa, però! Non è che “doveva andare così” o che “era destino per farci crescere”.
No. Il progetto è andata male. E non era quello che volevamo.
Magari dopo essere stati umiliati, dopo aver ingoiato bocconi amari, siamo stati noi a lasciare.
Oppure abbiamo sofferto quando l’ex ci ha detto che era finita — e noi abbiamo fatto finta di non saperlo.
E allora via, forse ci siamo chiusi in casa con Netflix e Spotify come unici coinquilini emotivi.
Ma alla fine… poco importa chi ha fatto cosa.
Quello che accomuna quasi tutti è un momento preciso. Quello in cui, anche solo per un attimo, abbiamo capito che quello che eravamo come coppia — e forse anche come individui — non esisteva più.
O, peggio: non ci era mai appartenuto davvero.
E lì, da quello shock iniziale, è partita l’unica reazione sensata: ricostruirci.
Non una versione incollata con l’Attack, ma una persona nuova, più consapevole, più libera, più vera.

L’ex è stato la miccia.
Il fuoco, però, l’abbiamo gestito noi.
E non con un secchio d’acqua… ma restando dentro le fiamme finché non siamo diventati incombustibili.
2. Psicologia della rinascita post-rottura
Sarà anche stato un disastro, ma sotto sotto… è stata una benedizione.
Non lo diciamo solo noi (che potremmo essere di parte), lo dice anche la scienza.
Nel 1996 due psicologi americani, Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, hanno teorizzato il concetto di Post-Traumatic Growth: in parole povere, le persone che attraversano eventi molto difficili — come un divorzio, un lutto, una rottura importante — possono uscirne più forti, più consapevoli e con una visione più autentica della vita.
Insomma: più che spezzarti, il trauma ti plasma.
Come la creta tra le mani: si sgretola, si ammorbidisce… ma poi prende una forma nuova.
E magari finalmente tua.
Nel 2011 uno studio pubblicato sul Journal of Positive Psychology da Lewandowski, Aron & Gee ha dimostrato che uscire da una relazione tossica o insoddisfacente migliora l’autostima, la percezione di sé e la capacità di costruire nuovi obiettivi individuali.
Una specie di reboot dell’identità. Senza bisogno di format C: (lo so questa espressione rivela subito che sono un GenX 😅)
E non è finita qui: Robert Emery della University of Virginia, che di mestiere studia gente che si molla e famiglie che si riconfigurano, sostiene che:
“Le crisi relazionali sono momenti privilegiati per ridefinire sé stessi.”
Tradotto dal linguaggio accademico: quando tutto va a gonfie vele, non ti fermi a chiederti chi diavolo sei davvero. Ma quando il terremoto coniugale ti rade al suolo le emozioni, ecco che all’improvviso ti ritrovi faccia a faccia con la domanda esistenziale:
“Chi cavolo sono io, oltre ad essere l’ex-partner di quella persona?”
E in quel momento, se hai le palle (o le ovaie) per guardarti davvero allo specchio, trovi qualche risposta.
O, nel peggiore dei casi, almeno capisci che è ora di iniziare a cercarle, quelle maledette risposte (vedi anche il nostro articolo Io non sono il mio matrimonio!)
E poi c’è lui, il grande assente di molte discussioni post-rottura: il perdono.
Non quello col mantello bianco e le frasi tipo “ti auguro il meglio”.
Parliamo di perdonare per smettere di soffrire noi, non per redimere l’altro.
Due psicologi ne hanno fatto una missione accademica e clinica:
✦ Everett Worthington, professore alla Virginia Commonwealth University
Ha sviluppato il modello REACH, usato in terapia per aiutare le persone a perdonare senza farsi prendere per santi o scemi.
Il metodo è semplice (almeno sulla carta):
- R = Recall the hurt (riporta a galla il dolore, non quello che racconti agli amici dopo tre spritz, quello vero)
- E = Empathize (prova a metterti nelle sue scarpe, anche se preferiresti mettergliele in testa)
- A = Altruistic gift (il perdono è un regalo che fai a te stesso, non una bandiera bianca)
- C = Commit (decidi di perdonare e smettila di tornare sull’argomento ogni volta che bevi troppo)
- H = Hold on (tieniti stretto a questa decisione, anche quando Facebook ti mostra le sue foto con il nuovo compagno che guida la Porsche)
Le sue ricerche dimostrano che chi riesce a perdonare profondamente riduce ansia, depressione e stress fisiologico.
In pratica: hai meno danni da ulcera e dormi pure meglio.
✦ Fred Luskin, Stanford University – direttore del Stanford Forgiveness Project
“Perdonare non significa accettare l’ingiustizia, ma smettere di soffrire per essa.”
Il suo libro Forgive for Good è diventato un punto di riferimento per chi vuole uscire dal loop della rabbia post-relazione.
Perché restare arrabbiati non ti difende. Ti blocca.
E allora ecco il punto: la vera crescita non arriva solo quando lasci l’altro.
Arriva quando lasci andare anche quello che ti ha fatto.
3. Ex tossici, ex grigi, ex normali – la gratitudine selettiva
Non tutti gli ex sono stati mostri usciti dal manuale DSM-5 dei disturbi di personalità.
Certo, qualcuno sì — e a quelli riserviamo il piacere di postare su Instagram la nostra migliore vita possibile con hashtag passivo-aggressivi tipo #finalmentelibero o #freebird.
Ma in molti casi si trattava semplicemente di persone… incompatibili. Come i jeans larghi sotto la pioggia: partivi con entusiasmo, finivi con le caviglie fradicie.
Eppure il risultato non cambia: a un certo punto, la relazione ha iniziato a farci male.
Qualcuno ci ha spenti piano piano.
Qualcun altro ci ha manipolati, controllati, svuotati.
E altri ancora — i più subdoli — ci hanno semplicemente fatto sentire invisibili.
Ed è qui che entra in gioco un concetto chiave:
la gratitudine selettiva.
Non è beatificazione. Non è negazione del dolore.
È riconoscere che, proprio grazie a quella sofferenza, abbiamo messo in discussione tutto.
E, sorpresa: quello che è emerso dopo è molto più interessante.
La gratitudine selettiva è quel gesto adulto in cui dici:
“Non rifarei mai quella relazione. Ma senza quella relazione, oggi non sarei qui.”
È quando riesci a guardare indietro senza rabbia… ma anche senza nostalgia.
Non tutti gli ex ci hanno rovinati.
Alcuni sì. Ma anche quelli, alla fine, ci hanno sbloccati.
Magari ci è voluto tempo. Magari abbiamo toccato il fondo più volte di quanto vorremmo ammettere.
Ma se oggi siamo più forti, più lucidi e più autentici… è anche grazie a quella caduta.
E se tu che stai leggendo sei ancora nel pieno del processo di cura, tra rabbia, terapia e playlist malinconiche…
Te lo diciamo col cuore (e senza troppa retorica): ne uscirai. E ne uscirai meglio.
Più vero. Più saldo. Più tu.
Non li ringraziamo con fiori e biglietti.
Ma possiamo, con un sorriso adulto e vagamente sarcastico, ammettere che a modo loro… ci sono stati utili.
Come certi esami universitari assurdi che non ti servono a nulla, ma ti insegnano la resilienza. E a bere molto caffè.
4. Perdonare per liberarsi (non per giustificare)
Lo so, lo so: perdonare suona molto Ghandi.. quelle parole che non senti subito tue se sei stato ferito o trattato male o peggio.
Tipo “resilienza” sentita in podcast da un coach motivazionale quando fai fatica a respirare.
Ma aspetta un attimo.
Qui non parliamo di dimenticare.
Né di farti scrivere “grazie per avermi devastato” in una lettera scritta a mano su carta pergamena.
Parliamo di lasciar andare per respirare meglio.
E non è spiritualità da Instagram. È neuroscienza, psicologia… e un po’ di saggezza antica.
In oriente, da millenni, dicono che trattenere il rancore fa più male a te che all’altro.
Il Buddha — che probabilmente ne aveva viste parecchie — diceva:
“Trattenere la rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro: sei tu quello che si brucia.”
Dietro questa immagine forte, c’è una verità semplice: quando resti aggrappato a chi ti ha ferito, ti fai male da solo.
Perché quell’emozione continua ad abitarti, a lavorarti dentro, a drenarti energia… mentre l’altro magari nemmeno ci pensa più.
E dalle Hawaii arriva l’Ho’oponopono, che non è una nuova posizione yoga ma una pratica antichissima di riconciliazione interiore.
La cosa interessante? Non serve che l’altro sia coinvolto.
È un processo tutto tuo, in cui dici solo — a te stesso — le parole:
“Mi dispiace. Ti prego, perdonami. Grazie. Ti amo.”
Sembrano frasi da diario adolescenziale. In realtà sono un rituale di alleggerimento profondo.
Ripeterle può sembrare strano, ma — come raccontano molti praticanti — qualcosa si scioglie dentro.
Un nodo. Un peso. Una storia.
Anche la psicologia occidentale, sia pure con meno grazia, arriva alla stessa conclusione.
Secondo Tashiro e Frazier (2003), chi affronta una rottura vedendola come evento esterno (non solo colpa propria o fallimento personale) guarisce meglio e cresce di più.
Martin Seligman, padre della psicologia positiva, sostiene che dare un nuovo significato al dolore è il primo passo verso una vita con più scopo.
E infine, c’è un dato di fatto:
Restare arrabbiati non ti protegge. Ti imprigiona come una mosca nella carta moschicida.
Ti tiene ancorato a quella versione di te che ancora si presenta come “l’ex di”, come se fosse un titolo nobiliare. Ti incolla a una ferita che, col tempo, è diventata più una scusa che un dolore reale.
E nel frattempo, indovina? L’ex continua la sua vita. Probabilmente ignaro del tuo dolore. O peggio ancora: felice.
Perdonare, quindi, non è un atto di bontà.
È un gesto egoista e intelligente.
Perché se devi portarti dietro qualcosa… meglio un bagaglio a mano che una valigia piena di rancore e recriminazioni.
“Il dolore non è mai desiderabile. Ma quando riesci a trovarci un senso, smette di essere solo una ferita e diventa una direzione.”
— Martin Seligman, Flourish (2011)
E quando finalmente lasci andare… succede qualcosa.
Ti accorgi che la relazione in cui eri sembrava grande, ma era solo un acquario.
Protetto, certo. Ma piccolo.
Il divorzio, la separazione, il distacco — sono quel momento in cui apri lo sguardo e vedi che fuori c’è un oceano.
Ampio. Libero. Respirabile.
E tutto da esplorare.

5. Da dipendenza affettiva a autonomia piena
C’era una volta… l’idea che l’amore dovesse completarti.
Quella storia della metà della mela, dell’anima gemella, Titanic, rose, violini e altre sciocchezze simili (vedi il nostro articolo Il Principe Azzurro è morto… scopri perché questa ricerca non ha mai avuto senso)
Poi è arrivato il divorzio. O la separazione. O quel messaggio passivo-aggressivo che iniziava con “dobbiamo parlare”.
E a quel punto, ci siamo ritrovati soli. Ma anche — spoiler — interi.
Perché diciamolo: molte relazioni, specie quelle lunghe o iniziate quando si era giovani e un po’ ingenui, finiscono per diventare una specie di fusione d’identità.
Non si capisce più dove finisci tu e inizia l’altro (e le identità fuse sono quelle iniziali, senza tenere conto dell’evoluzione di entrambi nel tempo).
E tutto — dalle vacanze alla password di Netflix — viene definito in funzione della coppia.
Non sei più Paolo o Francesca. Sei “noi”.
Ecco, quando quel “noi” si rompe, chi è in quella situazione all’inizio si sente perso.
Ma poi, piano piano, ritorni a casa. A casa tua. Dentro di te.
Scopri che ti piace la musica che ascoltavi prima di cambiare playlist per non disturbare.
Ricompri il profumo che piaceva a te, non quello “che piace a entrambi”.
Ti iscrivi a quel corso di fotografia, di ceramica, o di pole dance che avevi messo in pausa perché “non aveva senso farlo da solo”.
Questa, amici, si chiama autonomia piena.
Non è solitudine.
È scelta consapevole di stare con sé stessi, senza sentirsi incompleti.
È quando ti rendi conto che non sei una metà della mela.
Sei un frutteto intero, con tanto di uva fermentata e bottiglia già stappata.
E se un giorno incontrerai qualcun altro… bene.
Ma stavolta non sarà per colmare un vuoto.
Sarà per condividere un cammino. Da pari.
Non da stampella emotiva.
6. Quindi grazie ex. Ma soprattutto, bravi voi.
E insomma… grazie.
Sì, grazie ex.
Grazie per non averci capiti. Per averci trascurati. Per averci feriti, incasinati, destabilizzati.
Grazie per averci lasciati nel momento peggiore.
O, peggio ancora, per essere rimasti troppo a lungo.
Senza di voi, oggi non saremmo quello che siamo.
Ma sia chiaro: non avete fatto tutto voi.
Avete acceso la miccia.
Avete fatto traboccare il vaso.
Avete smosso il terreno sotto ai piedi.
Ma poi — e qui viene il bello — ci siamo stati noi a fare il lavoro sporco.
Siamo stati noi a raccogliere i cocci, a riprendere fiato, a farci domande scomode.
Siamo stati noi a cercare risposte (e a volte anche terapeuti, amici fidati e playlist tristi alternate a pezzi motivazionali anni ’90).
Siamo noi quelli che si sono rialzati.
Più veri.
Più liberi.
Più noi.
Quindi sì: grazie ex. Servizio essenziale che nemmeno sapevate di star fornendo.
Ma soprattutto… un applauso a noi.
A noi che ci siamo rialzati mentre altri ancora riguardano le foto del matrimonio che fu.
A noi che abbiamo capito che “separato/a” non è uno stato civile ma un punto di partenza.
A noi che alla domanda “ma non ti senti solo/a?” rispondiamo con un sorriso sornione che dice più di mille parole.
A noi che, alla fine, ci piacciamo molto di più da quando ci guardiamo con i nostri occhi e non più con i loro.
🎯Takeaway – Cosa ci insegnano gli ex (quando smettiamo di maledirli)
– Che la sofferenza, se attraversata, ti rende più autentico di mille corsi di crescita personale. – Che la libertà non ha prezzo (e vale molto di più dell’assegno di mantenimento). – Che la solitudine fa meno paura quando smetti di cercare qualcuno che ti completi. – Che perdonare non è un favore che fai all’altro. È un regalo che fai a te stesso. – Che le cicatrici non vanno nascoste. Vanno portate con stile. – Che non serve qualcuno che ti faccia sentire sbagliato. Serve qualcuno con cui puoi essere te stesso. – Che il dolore può essere l’inizio. Ma la rinascita… quella è tutta roba tua. Quindi, alla fine, dentro di te puoi anche dire “grazie”. |