Cari divorziandi anonimi (o aspiranti tali), alzi la mano chi, alla domanda ‘chi sei?’, risponde automaticamente ‘sono la moglie/il marito di…’ Come se l’essere sposati fosse la caratteristica principale della vostra identità. Un po’ come quelli che si presentano dicendo ‘sono un avvocato’ o ‘sono un manager’, come se un lavoro – o un matrimonio – potesse davvero definire chi siamo.
Pensate a Enrico (nome di fantasia): prima del matrimonio era un appassionato di fotografia, suonava in una band, aveva mille interessi. Poi, dopo dodici anni di matrimonio, alla domanda ‘cosa ti piace fare?’ risponde invariabilmente: ‘Io e Anna amiamo guardare serie TV e fare passeggiate la domenica.’ Ma Enrico, tu, al di là di Anna, cosa ami fare? Chi sei veramente?
Non è solo un’impressione: uno studio del Journal of Social and Personal Relationships del 2019 rivela che circa il 60% delle persone sposate ha riportato una significativa diminuzione dei propri interessi personali entro i primi cinque anni di matrimonio. È come se indossassimo un’etichetta così a lungo da dimenticare che è solo un vestito, non la nostra pelle.
La celebre Self-Expansion Theory di Aron & Aron ci spiega che nelle relazioni intime, specie nel matrimonio, tendiamo a espanderci sì, ma nella direzione dell’altro. Il risultato? Circa il 45% delle persone sposate fatica a riconoscere quali siano i propri obiettivi distinti da quelli della coppia. È come se invece di essere due colori distinti che creano un bellissimo dipinto insieme, ci si trasformasse in un’unica tinta indefinita dove non si distingue più nulla.
Chi paga il conto di questa fusione identitaria? Uno studio longitudinale dell’Università del Michigan ha scoperto che ben il 72% delle persone divorziate dichiara di aver ‘perso se stesse’ durante il matrimonio. Non parliamo solo di confini personali sfumati, ma di identità completamente assorbite in un ruolo, al punto che quando la relazione finisce ci si ritrova davanti allo specchio chiedendosi: ‘Ma io, oltre ad essere stato/a marito/moglie, chi sono?’
Ma non disperate! Se vi state riconoscendo in questa descrizione, non siete soli (ricordate quel 72% di cui sopra?) e sappiate soprattutto che c’è una via d’uscita.
L’obiettivo di questo articolo è esplorare come e perché tendiamo a trasformare il matrimonio nella nostra identità principale, dimenticando tutti gli altri colori della nostra personalità. Confronteremo questa dinamica con le relazioni non matrimoniali, che sembrano (spoiler!) lasciare più spazio per mantenere un senso di sé distinto dal ruolo relazionale. Infine, per chi si sente perso nella nebbia dell’identità matrimoniale, parleremo di tecniche concrete per riscoprirsi dopo il divorzio e, per i più disorientati, di come un supporto professionale possa aiutare in questo viaggio di riscoperta.
Dopotutto, non siamo al mondo per essere esclusivamente ‘il marito di’ o ‘la moglie di’. Siamo qui per essere protagonisti della nostra storia, che includa o meno un co-protagonista nella trama
Identità e Matrimonio – una fusione invisibile?
“Who are you? Who, who, who, who?” Non è solo il ritornello di una canzone che ci faceva saltare sul divano negli anni ’80, ma la domanda che molti di noi si trovano a fare allo specchio dopo anni di matrimonio…
Immaginate Enrico, sposato da dieci anni. È una serata come tante altre: giornata di lavoro, cena in silenzio con sua moglie, serie TV che scorrono a ritmo meccanico. Niente di strano. Ma quando va a letto, Enrico inizia a sentirsi strano, quasi come se non riuscisse a respirare. Appena chiude gli occhi, un senso di soffocamento lo assale, deve alzarsi subito, andare a prendere fiato. La moglie gli chiede se va tutto bene. “Sì sì, niente, mi sono solo dimenticato di andare in bagno,” risponde, mentre si dirige in bagno come se stesse recitando una parte. E lì, seduto sulla tazza, si ferma davvero a pensare: cosa ci faccio io qui? Chi sono io? Ha un attacco di panico, anche se forse non lo sa ancora.
Fino a quella notte, Enrico non si era mai chiesto chi fosse veramente, perché la risposta era sempre stata scontata: è il marito di sua moglie, il buon marito che vive una vita regolare, che lavora, che cena in silenzio, che guarda la TV prima di andare a letto. Ma adesso, lì, seduto nel silenzio del bagno, per la prima volta si chiede: al di là di tutto questo, al di là di essere “il marito di lei,” chi sono io davvero?
Questo momento di crisi non è solo un aneddoto: ci racconta un fenomeno ben documentato. Gli psicologi Tajfel & Turner lo chiamano “self-categorization”, il processo per cui una persona finisce per identificarsi in un ruolo sociale fino a perdere di vista tutto il resto. Il matrimonio diventa quindi non solo un aspetto della vita, ma un’identità di rimpiazzo. Una coperta di sicurezza sotto cui nascondere qualsiasi altra sfumatura di sé. Perché? Perché è facile, e soprattutto perché la società fa di tutto per ricordarti chi sei “davvero.” “Ah, ma tu sei il marito di…,” “Oh, sì, la moglie di…” Se te lo ripetono abbastanza, è facile iniziare a crederci.
E poi ci sono loro: quelli che usano una foto di coppia come immagine del profilo sui social. Perché, si sa, mica sei tu che posti, è l’intero “noi” che pubblica aggiornamenti su Facebook. Un sintomo abbastanza evidente che il confine tra identità personale e matrimoniale è stato sfumato… anzi, cancellato con Photoshop.
Ed è così che, senza rendercene conto, indossiamo il matrimonio come un vestito che non si toglie mai. Come dice la psicologa Sherry Turkle, questa si chiama “ego-invested identity,” un’identità in cui “la persona costruisce una versione di sé che rispecchia l’ideale sociale, come se non ci fosse altra scelta.” Così, Enrico diventa il marito perfetto, non per convinzione, ma perché è tutto ciò che rimane quando ogni altro pezzo di sé è svanito.
È una sorta di profezia che si auto-avvera: accetti il ruolo di marito/moglie ideale e piano piano smetti di chiederti chi sei davvero. Il problema è che il giorno in cui ci si ritrova da soli, davanti a uno specchio o in crisi in bagno, non si sa più cosa dire.
[GenX Alert!] Parlo con te che hai vissuto gli anni in cui i videogiochi avevano tre vite e nessun salvataggio: ricordi quando pensavamo che la vita fosse come Super Mario Bros? Un livello dopo l’altro, sempre in avanti. Plot twist: è più simile a Tetris – i pezzi arrivano random e devi essere creativo per farli incastrare.
Lo sapevi che? 📊
- Il 45% dei GenX divorziati riporta di aver riscoperto passioni abbandonate da 20+ anni
- Siamo la generazione con il più alto tasso di “identity reinvention” post-divorzio
- L’82% di noi ammette di aver sacrificato almeno un sogno importante sull’altare del “percorso corretto”
La trappola della curva del “Successo”
Sapete qual è la cosa più insidiosa di questa fusione identitaria con il matrimonio? È che si basa su un modello mentale che ci portiamo dietro fin da piccoli. Io lo chiamo la curva del successo.
Immaginate un grafico, con l’età sull’asse delle y e i risultati ottenuti sull’asse delle x.” E cosa c’è su questa linea? Una bella sequenza ordinata di ✓: diploma ✓, laurea ✓, lavoro ✓, matrimonio ✓, casa ✓, figli ✓. Come se la vita fosse un gigantesco modulo da compilare, e noi fossimo qui solo per mettere le spunte nei posti giusti.
La psicologa Jennifer Petriglieri dell’INSEAD la chiama “script sociale” – io preferisco chiamarla “la madre di tutti i mali.” Perché? Perché questo modello ha un effetto collaterale devastante: induce il nostro cervello a credere che il benessere personale segua la stessa curva. Come se essere “sulla strada giusta” secondo la società significasse automaticamente essere felici.
E il matrimonio? Ah, il matrimonio diventa uno dei checkpoint più importanti di questa curva immaginaria. Per molti non è più una scelta di vita tra le tante, ma LA scelta che conferma che siamo “sulla strada giusta.” Come dice la sociologa Eva Illouz Il matrimonio è diventato non solo un marchio di successo sociale, ma un indicatore di ‘normalità’ psicologica.
Ma la verità è diversa: quella curva non esiste!
Pensate per analogia a tutte le storie di successo che ci raccontano ovunque: “partito da zero, ha studiato duramente, ha fatto sacrifici, e passo dopo passo è arrivato al successo.” Balle. O meglio, mezze verità raccontate col senno di poi, come quando si descrive una storia d’amore partendo dal lieto fine. La realtà? Jeff Bezos, prima di Amazon, ha collezionato più fallimenti di un poetastro su Tinder. Walt Disney è stato licenziato da un giornale perché “mancava di immaginazione” (sì, proprio lui). E Steve Jobs è andato a zonzo per facoltà universitarie, fatto il freak in India e mangiato solo mele per anni prima di trovare la sua strada. Ma queste parti delle storie tendiamo a dimenticarle, vero?
Poi ci sono i profili Instagram dei vostri amici “perfetti”: quelli sposati da 15 anni, con la casa perfetta, il lavoro perfetto, i figli perfetti. Sapete cosa non vedete? I litigi furiosi per il mutuo, le crisi di mezza età, gli eventuali tradimenti che non conosciamo ma che in realtà riguardano circa due terzi delle persone sposate (vedi nostro articolo sui tradimenti).
Il fatto è che il nostro cervello adora le semplificazioni. Non è colpa sua: è stato selezionato evolutivamente per cercare pattern, per creare collegamenti lineari causa-effetto, per semplificare la complessità del mondo. Come spiega lo psicologo evoluzionista Steven Pinker, questa tendenza ci ha aiutato a sopravvivere per centinaia di migliaia di anni.
Il problema è che questo stesso meccanismo, così utile per la sopravvivenza, ci fa anche dei brutti scherzi: ci spinge a vedere percorsi lineari dove non esistono, a creare narrative semplificate della realtà, a credere che A porti sempre a B che porta sempre a C. Gli psicologi Daniel Kahneman e Amos Tversky lo chiamano “bias della narrativa”: la nostra tendenza a costruire storie coerenti anche dove c’è solo il caso (o il caos).
Ed ecco che la curva del successo diventa il nostro modo per semplificare la complessità della vita in un bel diagramma ordinato. Peccato che la vita moderna sia molto più incasinata del procurarsi il cibo o sfuggire ai predatori.
E quella curva, più ci crediamo, più ci fa paura e più condiziona le nostre scelte. Secondo uno studio della University of Michigan, il 68% delle persone ammette di aver preso decisioni importanti della propria vita non in base ai propri desideri, ma per rimanere in linea con le aspettative sociali.
Siamo tutti un po’ Truman, protagonisti di un gigantesco show diretto da altri. La differenza è che Truman, alla fine, se n’è accorto ed è scappato. Noi invece spesso continuiamo a recitare, convincendoci che quella sia l’unica trama possibile.
Ma c’e’ una buona notizia: non dobbiamo essere quella curva. Non siamo solo “il marito di” o “la moglie di.” Siamo esseri umani incasinati e unici, pieni di passioni e idiosincrasie. Siamo quella volta che abbiamo provato a imparare il tedesco e abbiamo fallito miseramente. Siamo quel corso di sax abbandonato dopo quattro lezioni. Siamo quel viaggio fatto da soli che ci ha cambiato la vita. Siamo quella passione per la fotografia che ci fa brillare gli occhi. Siamo quella passione (neanche tanto segreta) per i robot giapponesi degli anni ’80. Siamo persino quella strana abitudine di parlare con il proprio cane come se ci capisse (che poi è davvero cosi’ strana?).
Ma alla fine… una volta però che ti accorgi dell’esistenza di questo “script”, puoi iniziare a riscriverlo.
Come? intanto potresti iniziare a chiederti se quella curva del successo rispecchia davvero i TUOI desideri, o se stai solo seguendo un copione scritto da altri.
Relazioni Senza Matrimonio – quando non segui il copione
Parliamo di chi ha deciso di mandare a quel paese la curva del successo, almeno per quanto riguarda il “checkpoint matrimonio”. Le coppie di lungo termine non sposate sono come quei ribelli che al cinema escono dalla porta d’emergenza invece di seguire le frecce luminose: fanno un po’ storcere il naso ai più tradizionalisti, ma forse hanno capito qualcosa che agli altri sfugge.
La psicologa Bella DePaulo, che ha dedicato anni allo studio delle relazioni non tradizionali, ha scoperto qualcosa di interessante: le coppie non sposate tendono a mantenere più facilmente la propria individualità. È come se l’assenza di quel “✓” sulla casella “matrimonio” li liberasse dalla pressione di dover recitare un ruolo predefinito.
Prendiamo Mario e Giulia (nomi di fantasia, ma la storia è vera). Stanno insieme da 12 anni, vivono insieme da 8, ma non si sono mai sposati. “La gente ci guarda strano,” racconta Giulia, “come se stessimo giocando a fare la coppia invece di essere una coppia vera.” Eppure, mentre i loro amici sposati postano foto identiche delle loro vacanze in Sardegna, loro continuano a coltivare passioni diverse: lui va ai concerti metal con i suoi amici, lei fa retreats di meditazione in Nepal. E ogni tanto viaggiano insieme. E indovinate un po’? Funziona.
La ricerca sulla “Relationship Maintenance” mostra che le coppie non sposate tendono a:
- Comunicare di più (perché non danno nulla per scontato)
- Negoziare attivamente spazi e tempi (invece di cadere in ruoli predefiniti)
- Mantenere più facilmente interessi individuali (perché non devono dimostrare di essere “la famiglia del Mulino Bianco”)
- Lavorare più consapevolmente sulla relazione (perché non c’è un contratto a tenerli insieme)
È come se l’assenza di quel “✓” sulla curva del successo li costringesse a rimanere più svegli, più consapevoli, più attivi nella gestione della relazione. Non hanno il “pilota automatico” del matrimonio, e forse è proprio questo che li aiuta a mantenere la propria identità.
Ma attenzione: non sto dicendo che il matrimonio sia il male e le relazioni non matrimoniali il bene. Sarebbe come sostituire una curva del successo con un’altra. Il punto è che queste coppie ci mostrano qualcosa di importante: si può stare insieme senza dover sacrificare la propria identità sull’altare delle aspettative sociali.
Come dice la terapeuta di coppia Esther Perel: “Le migliori relazioni non sono quelle in cui due persone si fondono in una, ma quelle in cui ciascuno aiuta l’altro a diventare la versione migliore di se stesso.” E questo, che sia con o senza fede al dito, richiede un lavoro costante di consapevolezza.
Conclusione Temporanea: pausa di riflessione
Come state? Ho già scardinato qualche certezza o vi sto solo sommergendo di informazioni da processare? Non preoccupatevi, questa è una pausa strategica.
I temi importanti che spero di essere riuscito a passare sono:
- Che la “fusione totale” nel matrimonio è bella quanto i pantaloni a zampa: sembrava una grande idea all’epoca, ma col senno di poi…
- Che la famosa “curva del successo” è più una trappola che una guida
- Che spesso le relazioni non matrimoniali, meno standardizzate e prevedibili, sono spesso più autentiche e durature.
[Check Point] Se state pensando che il vostro matrimonio potrebbe essere un tantino… ehm… “invadente” rispetto alla vostra identità personale , siete già un passo avanti.
[Coming Soon nella prossima puntata…]
- Come riconoscere i segnali d’allarme
- Come recuperare la vostra identità (sì, quella che avevate prima di diventare “la moglie/il marito di…”)
- Come costruire una nuova versione di voi stessi
[Compiti per Casa] Nel frattempo, fate come nei vecchi videogiochi: premete pausa, prendete fiato, e iniziate a chiedervi: “Chi sono io davvero?”