Cari lettori, bentornati al nostro incontro periodico di Divorziati Anonimi, dove il primo passo è riconoscere che il proprio matrimonio non funzionava… è un’area del sito dove pubblichiamo le storie che voi lettori decidete di condividere con noi. Nel condividere quanto ci viene inviato non c’e’ mai giudizio da parte nostra ma voglia di conoscere e comprendere quanto vissuto da un nostro lettore. Invito quindi tutti a leggere la storia che segue con il massimo rispetto.
Il tema di oggi è come convivere con il dubbio di aver fatto del male a qualcuno che non se lo meritava.
Già, perché non tutti i matrimoni finiscono con piatti rotti, tradimenti da telenovela o avvocati armati fino ai denti. Alcuni finiscono in silenzio, per usura, per fame di parole non dette, per mancanza di reciprocità. E quando a lasciarlo sei tu, che sei ancora vista come “quella che ha fatto soffrire l’altro”, il senso di colpa ti si appiccica addosso come una seconda pelle.
Sara ci ha scritto per condividere una storia che parla proprio di questo. Di cosa succede quando ami ancora il ricordo di una persona, ma non puoi più vivere nella relazione con quella persona. Quando scegliere te stessa significa far soffrire l’altro… e portarne addosso il peso.
La sua non è solo una lettera. È un atto di sincerità coraggioso. E forse, un invito per tutti noi: smettere di chiedere scusa per ciò che siamo.
ATTO I – IL CORPO E IL DOLORE
(Nota per il lettore: i brani in corsivo sono tratti dalla lettera autentica di Sara, che ha scelto di condividere con noi le sue parole più intime. Le riflessioni editoriali che li accompagnano sono invece farina del sacco LIBAD.)
Sara non ci ha raccontato tutti i dettagli della sua storia, ma possiamo provare a immaginare quello che ha vissuto. Dopo 28 anni insieme – 19 dei quali trascorsi come marito e moglie – ha guardato il suo compagno, Alberto, e gli ha detto che voleva separarsi. Non c’è stata una scenata. Nessun piatto rotto, nessun tradimento da confessare, nessun grido liberatorio. Solo una decisione già maturata dentro di lei da tempo, e comunicata con la fatica di chi sa che farà male.
Alberto ha ascoltato. Ha capito – o forse no. Ha accettato – o forse si è rassegnato. Ma la separazione è avvenuta con dignità. Quella dignità silenziosa che spesso accompagna le rotture più dolorose: quelle dove non ci sono colpe da attribuire, solo vite che si separano perché non vibrano più alla stessa frequenza.
Ed è da qui che comincia il racconto di Sara. Un racconto che passa prima dal corpo, poi dalla mente, poi dal cuore.
“Quando A. è andato via di casa ho provato un dolore fortissimo, fisico, cerebrale, organico: braccia, gambe, mani, testa… poi più dentro: muscoli, tendini, ossa, polmoni, fegato, cuore.”
Chi ha detto che lasciare qualcuno sia facile? Che chi prende la decisione sia quello “più forte”, quello “che ha già voltato pagina”? Niente di più falso. A volte, lasciare fa male al punto da diventare somatico. Il corpo si ribella, protesta, implode. Perché una separazione – anche se scelta – è comunque una perdita. E come tutte le perdite vere, scava.
“Il pensiero che una persona alla quale voglio un bene dell’anima possa soffrire per causa mia tutt’ora mi impedisce di chiudere gli occhi serenamente, di respirare senza affanno, di digerire velocemente.”
Ecco il senso di colpa, nella sua forma più bastarda. Non arriva quando hai fatto qualcosa di oggettivamente sbagliato. Arriva quando fai qualcosa di giusto per te… ma non per gli altri. Quando scegli la tua verità, e la tua verità rompe un equilibrio che per tutti sembrava funzionale. Quando ferisci, non con un tradimento, ma con un “basta” sussurrato a bassa voce, magari dopo anni di silenzi ingoiati.
“Mi sento come una mamma che ha abbandonato il proprio figlio.”
Questa frase è un pugno nello stomaco. E anche un nodo da sciogliere. Perché molte donne – ma anche uomini, sì – si sentono così quando lasciano un partner che non è “il cattivo” della storia. Solo che restare per pietà non è amore. È carità emotiva. E l’amore, quello vero, non si alimenta di colpa.
ATTO II – “Ma l’Amore è…”
“MA L’AMORE È RECIPROCITÀ: non esiste unione che tenga se uno traina e l’altro si lascia portare.”
Il problema non è tirare il carro. È tirarlo da soli. Ogni tanto uno può rallentare, inciampare, perdersi – certo. Ma se l’altro si fa trainare da mesi, da anni, allora non è più una coppia: è un rimorchio emotivo. E alla lunga… spezza.
“MA L’AMORE È LIBERTÀ: non esiste unione che tenga se l’uno deve rimpicciolirsi per far comodo all’altro.”
Ci hanno insegnato che in amore bisogna venirsi incontro. Ma nessuno ha detto che l’incontro debba essere a ribasso. Sara era “troppo” – troppo viva, troppo brillante, troppo affettuosa. Così, per non oscurare l’altro, ha spento se stessa a intermittenza. Ecco: questo non è amore. È autocensura sentimentale.
“Io troppo entusiasta, troppo sorridente, troppo curiosa, troppo affettuosa e bisognosa di gesti, a volte troppo intelligente e capace. E così, per non dar fastidio, ho iniziato a contenermi.”
Chi ti ama, non ti fa sentire “troppo”. Ti guarda danzare nella tua esagerazione, e sorride. E se la danza lo infastidisce… forse è lui ad avere i piedi inchiodati a terra.
“MA L’AMORE È CONDIVISIONE: non esiste unione che tenga se uno è il giudice e l’altro l’esecutore sbagliato.”
E qui Sara tocca un altro nodo: la relazione sbilanciata, quella in cui uno corregge e l’altro si corregge. L’amore non è un’aula di tribunale. Né un reality show dove uno giudica e l’altro si giustifica. Le relazioni sane si costruiscono in due, e si sbagliano in due.
“Non si dovrebbe legare l’altro alla catena invisibile del sarcasmo e della critica costante.”
Che poi, il sarcasmo non è intelligenza. È un veleno lento. Ti fa ridere il primo anno. Ti stanca il secondo. Ti annulla il terzo. Alla fine, ti trovi a chiederti se stai sbagliando tu, o se davvero non vali abbastanza.
“MA L’AMORE È SINCERITÀ: non esiste unione che tenga se il luogo abitato non è quello della verità.”
Fingere che vada tutto bene è la più insidiosa delle bugie. Si fa per quieto vivere, per “non rovinare tutto”, per tenere insieme la forma. Ma l’amore – quello che dura – abita nel casino della verità. Anche quando scotta.
“MA L’AMORE È DIALOGO: non è amore se è in silenzio, come si amano i pesci.”
Questa è geniale. E anche terribilmente vera. Ci sono coppie che vivono come pesci in un acquario: stessi movimenti, stessa routine, zero parole. Ma l’amore non è mutismo sincronizzato. È voce, anche rotta. È litigio, se serve. È parlare. Altrimenti è solo convivenza anfibia.
“MA L’AMORE È FAME: gli amori non muoiono con un colpo solo. Muoiono di fame. Fame di sguardi, di parole dolci, di quel ‘ci sono’ che non è mai arrivato…”
E qui arriva il colpo finale. Gli amori non esplodono: evaporano. Un giorno ti accorgi che è passato un mese dall’ultima carezza. Che ceni in silenzio. Che non sai più nemmeno come sorride l’altro. Gli amori non finiscono. Si consumano per assenza. Come una pianta non annaffiata: resta lì, apparentemente viva… ma già secca dentro.
ATTO III – LA SCELTA E IL SENSO DI COLPA
“Un giorno sono impazzita. Mi sono guardata allo specchio. Cercavo verità, autenticità, cercavo me.”
A volte non succede niente di eclatante. Nessuna goccia che fa traboccare il vaso. Solo uno specchio. Un giorno qualsiasi. Una mattina come le altre, in cui però ti accorgi che quella che ti guarda non sei tu. O meglio: sei una versione ridotta, spenta, scolorita di te stessa. È in quel momento che smetti di chiederti “come va la coppia?” e inizi a chiederti: e io, come sto?
E se la risposta è “sto male, anche se nessuno mi ha fatto del male”, lì scatta il cortocircuito. Perché non c’è un colpevole da incolpare. Ma c’è comunque qualcosa da lasciare.
“Sono passati 9 mesi. Il senso di colpa è quella voce interiore che ci punisce anche quando il mondo ci perdona.”
Il senso di colpa non ha a che fare con la giustizia. Non si placa con le scuse, né con il tempo. È una voce interna che ci conosce benissimo – e sa sempre dove colpire. Ti dice che sei egoista, ingrata, crudele. Anche quando hai solo scelto di non morire a piccoli pezzi ogni giorno. È quella vocina che ti sussurra: lui ti amava… e tu lo hai lasciato comunque.
“Non ci si dovrebbe sentire in colpa nello scegliere sé stessi, nello smettere di sacrificarsi, nel voler mettere confini, nel desiderare qualcosa di più…”
Eppure ci sentiamo in colpa eccome. Perché siamo cresciuti dentro una cultura che esalta il sacrificio come prova d’amore. Che ti dice che se qualcosa non va, devi “lavorarci su”, “tenere duro”, “non mollare alla prima difficoltà”. Ma se quelle difficoltà durano da anni? Se non c’è più nulla da salvare se non te stessa?
Scegliere sé stessi non è un atto egoista. È un atto di sopravvivenza emotiva. E – paradossalmente – è anche un atto di rispetto verso l’altro: perché rimanere senza più esserci davvero… è molto più crudele che andarsene.
“Fare proprio il concetto che non siamo nati per espiare, ma siamo in questo mondo per esistere, per amare, per scegliere, per sbagliare è un atto di guarigione profonda.”
Sara qui ci lascia una grande lezione. Non siamo qui per espiare le aspettative degli altri. Non dobbiamo “meritare” l’amore, né “compensare” l’affetto ricevuto con una fedeltà eterna anche quando fa male. Esistere è più importante che conformarsi. Amare non può essere una punizione. E sbagliare… è un diritto sacrosanto.
“Liberarsi dal peso invisibile del senso di colpa che abbiamo cucito addosso significa camminare leggeri nella propria verità. Senza più dover chiedere scusa per ciò che siamo.”
Ecco, forse è questo il vero punto di arrivo. Non un divorzio felice, non una nuova relazione, non una rinascita da copertina. Ma il coraggio di non dover più chiedere scusa per ciò che siamo.
Sara non ci ha scritto per essere assolta. Ci ha scritto per raccontare il suo percorso. Che forse è anche il tuo, o quello di qualcuno che conosci. Non c’è bisogno di grandi tragedie per separarsi. A volte basta una lunga, silenziosa sottrazione. E il coraggio di scegliere una vita vera, anche quando fa male.
📦 Cosa portarsi a casa – Le verità che restano
- Non è necessario odiare qualcuno per decidere di lasciarlo.
- Il dolore dell’altro non sempre indica che hai fatto qualcosa di sbagliato.
- Rimpicciolirsi per far funzionare una relazione non è amore. È auto-sabotaggio.
- Il senso di colpa è spesso il prezzo che paghiamo per la libertà.
- Non siamo nati per espiare. Ma per scegliere, anche quando è difficile.
- Se devi chiedere scusa per essere te stesso… forse è il momento di andare.
- Gli amori non sempre finiscono per colpa. A volte muoiono di fame.
- Il vero rispetto comincia da sé. Sempre.
Conclusione
Lasciare una persona che si ama ancora “un po’” – o che ci ha fatto del bene – è una delle decisioni più difficili da prendere. Ma a volte è l’unica che ci permette di tornare a respirare. Sara ha scelto sé stessa, senza urla e senza colpe. E nel farlo ci ha ricordato che la verità, anche quando fa male, può essere un atto d’amore. Verso di sé, e forse anche verso l’altro.
Se questa storia ti ha colpito, sappi che non è l’unica. Qui nostro portale trovi altre testimonianze vere, scritte da uomini e donne che – come te, come Sara – hanno attraversato quel confine sottile tra resistenza e rinascita. Le trovi nella sezione Le Vostre Storie, che aggiorniamo ogni settimana.
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👉 Chi viene pubblicato riceve un omaggio da parte nostra. Sara ha scelto la tazza bianca con la scritta Life Is Better After Divorce. Un oggetto semplice, ma carico di significato. Proprio come questa storia.